
Traduzioni impossibili: perché incontriamo difficoltà nel tradurre una parola quando non abbiamo esperienza del concetto che esprime
Articolo originale: “Impossible translations: why we struggle to translate words when we don’t experience the concept”, di Mark W. Post, pubblicato su The Conversation, 4 dicembre 2025.
Traduzione di Nicole Tirabassi
Se parlate fluentemente una lingua diversa dall’inglese, avrete probabilmente notato che alcuni concetti sono impossibili da tradurre con precisione.
Un designer giapponese, incantato dallo shibui di un oggetto (una sorta di bellezza semplice ma di un’eleganza senza tempo), potrebbe sentirsi frustrato dalla mancanza di un termine inglese che ne esprima un’esatta corrispondenza.
Il termine danese hygge esprime una qualità di comfort e calore così specifica che sono serviti interi libri per cercare di definirla.
Coloro che parlano portoghese potrebbero avere difficoltà a trasmettere il concetto di saudade, un misto di desiderio, nostalgia e malinconia. Ancor più ostico è per i gallesi tradurre hiraeth, un sentimento che aggiunge a quello stesso groviglio emotivo un richiamo struggente alla propria eredità e alle tradizioni celtiche.
Imprigionati dal linguaggio
Le parole utilizzate nelle diverse lingue possono classificare e strutturare in modo distinto i pensieri e le esperienze di chi le parla, fornendo un supporto alla teoria della “relatività linguistica”.
Nota anche come ipotesi di Sapir-Whorf, questa teoria prende le mosse dall’affermazione fatta nel 1929 dal linguista americano Edward Sapir, secondo cui le lingue fungono da indicatori della “rete di modelli culturali” di chi le parla: qualora i danesi sperimentino lo hygge, sarà naturale avere una parola per descriverlo, al contrario se gli anglofoni non lo esperissero, non avremmo un corrispondente lessicale per descriverlo.
Tuttavia, Sapir si spinse oltre, sostenendo che i parlanti “non vivono solo nel mondo oggettivo […] ma sono in gran parte soggetti alla propria lingua.”
Questa solida teoria del “determinismo linguistico” implica che i parlanti inglesi possano risultare intrappolati nei limiti della propria lingua. In tal caso, non potremmo effettivamente provare l’hygge, o almeno non nello stesso modo in cui potrebbe sperimentarlo un danese. La parola mancante implica un concetto mancante: un vuoto nel nostro bagaglio di esperienze.
Teorie contrastanti
Sono poche le teorie che si sono rivelate così controverse. Nel 1940 Benjamin Lee Whorf, allievo di Sapir, sosteneva che l’assenza dei tempi verbali (passato, presente, futuro) nella lingua hopi indicava che i suoi parlanti possedevano una diversa “esperienza psichica” del tempo e dell’universo rispetto ai fisici occidentali.
Tale affermazione è stata confutata da uno studio successivo che ha dedicato quasi 400 pagine all’analisi del linguaggio del tempo nella lingua hopi, includendo concetti quali “oggi”, “gennaio” e, sì, anche discussioni su azioni che avvengono nel presente, nel passato e nel futuro.
“E le 50 parole che gli Inuit hanno per indicare la neve?” Anche questa un’idea attribuita a Whorf. Sebbene il numero che egli effettivamente riportò fosse più vicino a sette, in seguito questo fu ritenuto allo stesso tempo troppo alto e troppo basso. (Dipende da come si definisce una “parola”).
Più recentemente, il linguista antropologo Dan Everett ha affermato che la lingua amazzonica Pirahã è priva di “ricorsività”, ovvero la possibilità di inserire una frase all’interno di un’altra (“{Confido che {ti renderai {conto che {la mia teoria è migliore.}}}}”).
Se fosse vero, il Pirahã si distinguerebbe proprio per la caratteristica identificata da Chomsky come principale di tutte le lingue umane.
Anche questa volta, le tesi di Everett sono state considerate sia estremamente rivoluzionarie che poco convincenti. Sembra che questo dibattito sia destinato a non finire mai, tanto che recentemente due importanti libri sull’argomento hanno adottato prospettive quasi diametralmente opposte, persino nei titoli, formulati in modo contrario!
La lingua come un ambiente famigliare
Entrambe le prospettive contengono una parte di verità.
Alcuni aspetti delle lingue umane devono essere identici o quasi, poiché sono tutte utilizzate da membri della stessa specie umana, con lo stesso tipo di corpo, cervello e modelli di comunicazione.
Eppure, i recenti progressi nella comprensione delle lingue indigene ci hanno fornito altri due importanti insegnamenti. In primo luogo, la varietà riscontrata tra le lingue del pianeta risulta notevolmente più significativa rispetto alle precedenti valutazioni. In secondo luogo, tali differenze sono spesso correlate ai modelli culturali ed ambientali all’interno dei quali le lingue sono storicamente utilizzate.
Ad esempio, in molte lingue himalayane, un’espressione come “quella casa” presenta tre sfumature diverse: “quella casa più in alto”, “quella casa più in basso” e “quella casa allo stesso livello”, a seconda della zona montuosa in cui vivono i parlanti.
Quando i parlanti si trasferiscono in regioni a quote più basse, il riferimento può passare da “in salita/in discesa” a “a monte/a valle”. Se poi non è presente un fiume abbastanza grande, questa distinzione può anche scomparire.
Le lingue indigene asiatiche della Malaysia peninsulare dispongono di un ampio lessico specifico dedicato alla descrizione di numerose tipologie di odori naturali. Questo è un indicatore della grande diversità dell’ambiente in cui vivono i loro parlanti.
Studi condotti su piccole comunità fortemente coese tra di loro, come i Milang dell’India nord-orientale, hanno rivelato come le lingue possano richiedere ai parlanti di specificare la fonte delle loro informazioni: se un’affermazione deriva dalla conoscenza generale del proprio gruppo sociale, oppure se è frutto di una fonte diversa, come dicerie o deduzioni basate su prove.
I parlanti di lingue che possiedono questi sistemi di “evidenzialità” possono imparare a parlare lingue – come l’inglese – che ne sono prive. Tuttavia, le abitudini linguistiche native sono difficili da abbandonare. Uno studio recente ha mostrato che i parlanti di alcune lingue con l’evidenzialità tendono ad aggiungere più spesso parole come “presumibilmente” o “apparentemente” nelle loro affermazioni rispetto ai madrelingua inglesi.
È possibile che le lingue umane non rappresentino una prigione dalla quale i parlanti non riescono a fuggire, bensì ambienti famigliari dai quali è difficile separarsi. Sebbene la parola di un’altra lingua possa sempre essere presa in prestito, i suoi unici significati culturali potrebbero rimanere sempre un po’ al di fuori della nostra portata.
